Pubblico in questo post la
mia intervista integrale, realizzata a inizio febbraio al dottor Mario Melazzini per il settimanale Verona Fedele e pubblicata sul numero di questo venerdì 19 febbraio 2016.
Arriva puntuale in una sala gremita della
Biblioteca di Sirmione (venerdì 5 febbraio). Sulle medesime sponde
del lago di Garda, dove anni fa
conobbe attraverso i suoi scritti la venerabile Benedetta Bianchi Porro, studentessa di medicina come lui, affetta
da una malattia rara. Come lui. Il dottor MarioMelazzini, medico oncologo, da 14 anni soffre di una patologia rara,
neurodegenerativa: la Sla, acronimo di sclerosilaterale amiotrofica. Sua compagna di vita da quando, il 17 febbraio 2002,
il suo piede sinistro non riuscì ad agganciare il pedale della bicicletta per
affrontare la corsa quotidiana.
Padre di tre figli e già nonno, Melazzini non
si è arreso alla malattia: oggi è anche assessore alla ricerca e all’innovazione
della Regione Lombardia, al timone di Arisla
(fondazione italiana per la ricerca sulla Sla) e il dicembre scorso è stato nominato
dal ministro Beatrice Lorenzin presidente dell’Agenzia italiana del farmaco, Aifa.
Il dottor Mario Melazzini a Sirmione |
«Ho imparato dai miei pazienti che inguaribile
non è sinonimo di incurabile – afferma Mario
Melazzini – e che la dignità sta nell’occhio del curante: per questo parlo sempre di sguardo. Oltre alla
medicina, anche la speranza è uno strumento di cura e di vita, e lo sguardo dei
familiari, degli amici, dei colleghi può essere espressione di fiducia e di
speranza: aiuta ad affrontare meglio la malattia, la solitudine, la
sofferenza».
Nonostante la malattia, ha accettato l’ennesima sfida il dottor Melazzini: mettersi alla
guida di un mercato che muove 30 miliardi di euro e che decide con quali
medicine curarsi. «Andare in giro a parlare – continua il neopresidente di Aifa
– mi pesa molto, più dal punto di vista emotivo che fisico. Per prepararmi ad
uscire ci metto circa tre ore e mezza, la mattina; la cravatta mi sta scomoda,
le scarpe mi fanno gonfiare i piedi, e poi c’è la notte da affrontare… ma questi
incontri sono momenti di carica propulsiva che mi danno grande energia».
Biblioteca di Sirmione |
L’incarico
come presidente di Aifa dà, ancora una volta, una svolta alla sua vita. Quali
sono gli obiettivi della sua “nuova battaglia”?
«Credo che ci troviamo di fronte a una sfida
importantissima. In un contesto particolare, in cui il costo dei farmaci è in
crescita, diventa necessario promuovere una nuova governance del farmaco.
L’obiettivo è la sostenibilità della
spesa farmaceutica alla luce dei
nuovi farmaci innovativi. Obiettivi importanti che Aifa sta già perseguendo
grazie all’impegno dell’attuale direttore generale Luca Pani».
Lei ha
parlato spesso dell’importanza di bilanciare l’efficacia delle cure con la
qualità di vita dei pazienti e i costi. Come si raggiunge, a suo avviso, questo
equilibrio? Quando è opportuno fermarsi per non sconfinare in “accadimento
terapeutico”?
«È un tema delicato quello dell’equilibrio e della
correttezza appropriata nella somministrazione di farmaci, anche a malati
terminali. Fermarsi non significa non voler più offrire le terapie, ma
garantire le cure, la presa in carico e sollecitare un confronto sulla
necessità di dover bilanciare al meglio l’efficacia della terapia con la
qualità di vita del paziente. Un equilibrio che ritengo si possa raggiungere
mettendo al centro delle proprie
azioni la persona e suoi bisogni. Da
tempo sostengo fermamente che sia fondamentale garantire un percorso di
presa in carico sia del paziente che dei suoi familiari, per assicurare la
continuità assistenziale. È inoltre importante il ruolo che le istituzioni,
insieme al mondo sanitario e sociosanitario, devono ricoprire affinché si abbia
la certezza concreta che nel nostro Paese ognuno riceva trattamenti, cure e sostegni
adeguati.
La medicina, i servizi sociosanitari e, più in generale, la società forniscono risposte ai differenti problemi posti dalla malattia, dal dolore e dalla sofferenza: risposte che devono essere implementate e potenziate. Bisogna evitare che certe correnti di pensiero trasformino la persona malata e/o con disabilità in un peso e costo sociale: un’idea che aumenta la solitudine dei malati e delle loro famiglie, introduce nelle persone più fragili il dubbio di poter essere vittima di un programmato disinteresse da parte della società, e favorisce decisioni rinunciatarie. Credo che la medicina e la scienza, così le persone che vi operano, debbano intervenire per eliminare o alleviare il dolore delle persone malate o con disabilità e migliorare la loro qualità di vita, evitando ogni forma di accanimento terapeutico. Questo conferma il senso della nostra professione medica».
La medicina, i servizi sociosanitari e, più in generale, la società forniscono risposte ai differenti problemi posti dalla malattia, dal dolore e dalla sofferenza: risposte che devono essere implementate e potenziate. Bisogna evitare che certe correnti di pensiero trasformino la persona malata e/o con disabilità in un peso e costo sociale: un’idea che aumenta la solitudine dei malati e delle loro famiglie, introduce nelle persone più fragili il dubbio di poter essere vittima di un programmato disinteresse da parte della società, e favorisce decisioni rinunciatarie. Credo che la medicina e la scienza, così le persone che vi operano, debbano intervenire per eliminare o alleviare il dolore delle persone malate o con disabilità e migliorare la loro qualità di vita, evitando ogni forma di accanimento terapeutico. Questo conferma il senso della nostra professione medica».
Cosa
manca secondo lei, in maniera sostanziale, in Italia per dare più dignità ai
malati di Sla e di altre patologie altamente invalidanti?
«Gli operatori sanitari dovrebbero essere più
consapevoli di ricoprire un ruolo fondamentale nel percorso di cura di ogni
malato e da qui farne derivare un sentimento di profonda partecipazione. È
necessario sviluppare sempre di più nel rapporto medico-paziente un forte senso
di empatia che porta al processo di condivisione del percorso terapeutico
assistenziale. La persona deve diventare il “motore” centrale di questo
percorso affinché si avvii un reale
cambiamento, che può divenire davvero epocale. Bisogna porre sull’altro uno
sguardo nuovo, che consente di leggere le sue reali necessità ed essere così in
grado di formulare delle risposte concrete ed efficaci. Si tratta di uno sguardo aperto, che può dare dignità e
sentirla restituita. Uno sguardo che io stesso ho imparato a conoscere e che mi
ha permesso di comprendere la mia malattia».
La sua
determinazione a vivere una vita normale e felice, nonostante la malattia, trae
radici nella fede. Come spiega questa sua ritrovata speranza ad altri ammalati?
![]() |
Nuovo libro di Mario Melazzini |
Nella
presentazione del suo libro ha parlato della venerabile Benedetta Bianchi
Porro, ha citato anche Giobbe e Sant’Agostino. Chi nella Parola le ha donato o
le dona maggiore conforto?
Un'immagine della venerabile sirmionese Benedetta Bianchi Porro, per la quale è in corso l'iter di beatificazione |
Penso ci sia sempre un significato a ciò che ci
accade e che può essere sempre vissuto come un dono, anche se è comprensibile
che all’inizio dell’esperienza del percorso della malattia vengano poste con un
po’ di rabbia. Quanto vissuto come malati, come pazienti, è sempre un dono che
ci viene offerto».
Oltre
lo sguardo, la speranza, che diviene anche terapia e nel suo caso è un punto di
arrivo e di ripartenza…
«Dopo la diagnosi di malattia il mio pensiero
era fisso a come la Sla mi avrebbe progressivamente reso prigioniero del mio
corpo. I primi due anni di malattia sono stati di buio, mi rifiutavo di
accettare questa malattia rara e devastante, di fronte alla quale la scienza
medica era impotente. Mentre allontanavo tutti gli affetti, continuavo a
lavorare tra i miei pazienti e cercavo di pianificare razionalmente il pensiero
di smettere di vivere in quelle condizioni.
Oggi mi rendo conto che in quel periodo vivevo continuando a guardare al passato, alle cose che non avrei più potuto fare, come andare in bicicletta e arrampicarmi sulle montagne che ho sempre amato. In quei momenti difficili, per provare a me stesso l’insuperabilità della mia condizione, mi sono rifugiato per un lungo periodo di solitudine proprio tra quei monti che amavo e che in quel momento mi davano dolore. Lì mi sono ritrovato. A poco a poco qualcosa è cambiato in me e ho capito che nonostante dovessi fare i conti ogni giorno con il limite, avrei potuto aspirare ancora a una vita piena e realizzata. Così la Sla nel tempo è diventata essa stessa esperienza di vita: la consapevolezza del presente, da dolorosa memoria e causa di grande tormento, è diventata fonte di esperienza e di forza. Questo per me è vivere nella speranza, grazie alla quale ora posso volgere uno sguardo nuovo su ciò che accade, sulle persone che mi stanno vicino e sulle esperienze che affronto, potendone cogliere il vero significato».
Oggi mi rendo conto che in quel periodo vivevo continuando a guardare al passato, alle cose che non avrei più potuto fare, come andare in bicicletta e arrampicarmi sulle montagne che ho sempre amato. In quei momenti difficili, per provare a me stesso l’insuperabilità della mia condizione, mi sono rifugiato per un lungo periodo di solitudine proprio tra quei monti che amavo e che in quel momento mi davano dolore. Lì mi sono ritrovato. A poco a poco qualcosa è cambiato in me e ho capito che nonostante dovessi fare i conti ogni giorno con il limite, avrei potuto aspirare ancora a una vita piena e realizzata. Così la Sla nel tempo è diventata essa stessa esperienza di vita: la consapevolezza del presente, da dolorosa memoria e causa di grande tormento, è diventata fonte di esperienza e di forza. Questo per me è vivere nella speranza, grazie alla quale ora posso volgere uno sguardo nuovo su ciò che accade, sulle persone che mi stanno vicino e sulle esperienze che affronto, potendone cogliere il vero significato».
Francesca Gardenato
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